Le
dichiarazioni dei terzi nel processo tributario.
L’articolo 7, comma 4, del D. Lgs. n. 546/1992 dispone
che “Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” e
sancisce, quindi, un divieto perentorio in merito all’ammissibilità delle prove
testimoniali nel processo tributario.
Alla luce di tali limitazioni probatorie rilevanza
fondamentale è assunta dal ruolo rivestito dalle dichiarazioni dei terzi,
ponendosi il problema circa la loro utilizzabilità nel processo tributario.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai
consolidato, le dichiarazioni di terzi sono ammesse nel processo fiscale, non a
titolo di fonti di prova in senso proprio, ma piuttosto a titolo di ausilio
all’accertamento, che deve, comunque, essere sostenuto da ulteriori elementi.
Tali
dichiarazioni, pertanto, pur non costituendo prova decisiva, devono essere
tenuti presenti dal giudice come elemento indiziario, da valutare insieme agli
altri elementi, come le presunzioni, la documentazione acquisita, le eventuali
movimentazioni finanziarie, la mancata contestazione dell’Amministrazione
finanziaria.
In
altre parole, le dichiarazioni testimoniali, se non possono costituire prova
nel processo tributario, in virtù dell’esplicita previsione di cui al comma 4
dell’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992, hanno, tuttavia, una funzione di conferma “esterna” rispetto ad un quadro
probatorio di per sé già sufficiente.
In
forza di quanto sopra affermato, la Corte
Costituzionale con la sentenza n.
18/2000 ha statuito che “va
necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di
introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale”, dando
così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel
nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire l’effettivo
principio “della parità delle armi processuali” nonché l’effettività del
diritto di difesa.
Sul punto,
poi, negli anni, si sono susseguite varie sentenze della Corte di Cassazione,
ribadendo il criterio secondo il quale “in forza del principio di parità delle parti, ben può il contribuente
produrre in giudizio dichiarazioni di terzi” (Cass., sez. trib., del 16
aprile 2008, n. 9958); e ancora statuendo che “il valore probatorio di tali dichiarazioni è pari a quello delle
dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria, cioè quello proprio
degli elementi indiziari” (Cass.,
sez. trib., del 17 giugno 2008, n. 16348; Cass., sez. trib., del 14 gennaio
2011, n. 767).
Da
ultimo, anche la sentenza Cass., sez. trib., del 27 marzo 2013, n. 7707 ha
confermato questo orientamento per cui “il contribuente può produrre in
giudizio “testimonianze” scritte; (queste) non costituiscono prova ma comunque
il giudice deve tenerne conto come elemento indiziario, da valutare insieme
agli altri elementi, come la prova logica, la documentazione acquisita, la
mancata contestazione dell’Amministrazione finanziaria, ecc.
In
ogni caso, il giudice è sempre tenuto a
motivare l’inutilizzazione delle dichiarazioni del terzo. Infatti, “in osservanza del principio delle parità
delle parti – applicabile anche nel processo tributario – il giudice tributario
deve prendere in considerazione le dichiarazioni extraprocessuali di persone
informate dei fatti, sia che siano rese all’Ufficio finanziario o alla Guardia
di Finanza, sia che siano rese al contribuente
o a chi lo assiste” (Cass., sez. trib., del 26 marzo 2003, n. 4423).
Il
comma 1 dell’art. 7 del D. Lgs. 546/1992,
stabilisce, inoltre, che: “ Le
commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle
parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite
agli uffici tributari ed all'ente locale da ciascuna legge d'imposta”.
Pertanto,
qualora i giudici tributari non ritengano probanti di per sé le dichiarazioni
di terzi prodotte dal contribuente in giudizio a sostegno delle proprie ragioni,
ben può richiamarsi il contenuto della norma appena citata, chiedendo, quindi,
che la competente Commissione Tributaria faccia uso degli ampi poteri riconosciuti dal comma 1 dell’art. 7 del D. Lgs. n.
546/1992, rinnovando ed integrando
l’istruttoria svolta dall’ufficio e, quindi, convocando espressamente le parti dell’atto notorio al fine di
acquisire ulteriori chiarimenti e informazioni.
Al
riguardo si sottolinea che l’uso che le Commissioni fanno di tali poteri è
discrezionale, ma, quando la situazione probatoria è tale che non possa
pronunciarsi una sentenza ragionevolmente motivata senza acquisire d’ufficio
alcune prove, l’esercizio dei suddetti poteri si configura come un dovere, il
cui mancato assolvimento, se non motivato, deve considerarsi illegittimo
(sentenza Cass., sez. trib., del 15 gennaio 2007, n. 673).
Lecce, 04 marzo 2014
Avv. Maurizio Villani
Avv.
IdalisaLamorgese
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